Don Mazzi: adulti “veri” per il sorriso dei giovani

Don Mazzi: adulti “veri” per il sorriso dei giovani

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A 92 anni don Antonio Mazzi, fondatore delle comunità terapeutiche Exodus, non ha perso la voglia di lottare per un mondo migliore che, secondo lui, vuol dire soprattutto stare dalla parte dei giovani più sfortunati, quelli con gli occhi spenti, senza sorriso, senza speranze.
Don Antonio, ma cosa manca ai nostri adolescenti per tornare a sperare? Se dovessimo indicare le tre cose più importanti?
Direi adulti veri, amicizia, speranza nel futuro… Sembra poco? No, è tutto quello che serve per diventare grandi.
Allora proviamo a declinare meglio i tre aspetti. Partiamo dagli adulti, cosa c’è che non va in quelli dei nostri giorni?
Non abbiamo più adulti. Siamo diventati solo vecchi, non adulti, forse perché abbiamo dimenticato come si fa a diventarlo. L’adulto è colui che sa rendere testimonianza in ogni tempo, in ogni luogo, in ogni situazione, quando le cose vanno bene e quando vanno male. Oggi invece non abbiamo adulti, ma cartoni animati. Soprattutto non abbiamo padri capaci di interpretare e di vivere le difficoltà.
L’eclisse del padre, perché è successo questo?
Se pretendessimo di raccontare in due parole un problema enorme e su cui sono stati scritti decine di libri importanti, finiremmo per dire cose superficiali. Ma è certo che questa crisi degli adulti e del padre in particolare è un altro prodotto negativo della società dei consumi. Abbiamo messo il fare al posto dell’essere, il dire al posto del fare, il guadagnare al posto del vivere. E perché facciamo questo? Non lo sappiamo, così è venuta meno un’idea di futuro realizzabile.
Veniamo al secondo punto, l’amicizia. Ma come? Oggi che tutti i giovani hanno migliaia di contatti sui social con tantissimi ‘amici’, sostieni che l’amicizia è un problema?
Ah sì, oggi i giovani si incontrano, si frequentano ma hanno smarrito il significato vero di amicizia, di gioco insieme, di sogno insieme. Durante l’adolescenza si sogna insieme. E si sogna insieme perché ci si sente amici. Oggi non succede più, chiediamoci perché…
Forse perché, oltre alla saggezza per diventare adulti, abbiamo smarrito anche il senso della fede?
La fede attraversa certamente tutte le realtà a cui abbiamo accennato, i giovani, l’educazione, la paternità. Anzi, o le attraversa tutte o non le attraversa per niente. La paternità è un fatto estremamente religioso e insieme un fatto storico, il padre è protagonista della seconda nascita (la prima è quella di cui è protagonista la madre). La prima nascita, quella materna, si ha quando il figlio esce dal corpo della donna. La seconda avviene grazie alla coscienza e alla maturità del padre. Dov’è oggi questa coscienza paterna? Io faccio davvero fatica a vederla. Anche in questo caso si tratta di un vuoto educativo.
Non dovremmo recitare qualche mea culpa anche come comunità ecclesiale?
Certo, abbiamo vissuto la fede quasi come una cerimonia permanente. Raramente l’abbiamo vissuta come un cammino, come una ricerca, ma anche come un dubbio con cui confrontarci, come una fedeltà. Fedeltà come scelta religiosa e fedeltà nell’impegno di educare. Essere fedeli a queste idee di bene vuol dire avere fede nel mistero, nell’infinito. E non lo siamo stati perché abbiamo smarrito il significato di interiorità. Ci siamo accontentati di andare in chiesa. Ma come un’abitudine. E, tramontata quell’abitudine, oggi non ci andiamo neppure più.
Non sarà colpa soltanto di noi genitori…
No certo, anche noi preti impegnati nella pastorale dobbiamo farci qualche domanda, non possiamo chiamarci fuori. Dobbiamo tornare sulla strada come Cristo. E non fermarci a fare i ‘padri eterni’ nelle sacrestie oppure nelle segreterie parrocchiali. Torniamo a sposare la povertà. La preferenza più grande di Cristo è la povertà, perché solo sposando la povertà si diventa cristiani. Non c’è scelta. Altrimenti diventiamo solo sacerdoti del tempio.
Oggi tra i nuovi poveri possiamo includere anche i nostri adolescenti?
Certo, ma attenzione, povertà è una di quelle parole che abbiamo sporcato. L’abbiamo ridotta solo a una classifica sociale, mentre la povertà per il Vangelo è una ricchezza attraverso cui scopriamo la paternità di Dio. C’è anche la povertà materiale ma ci dev’essere soprattutto la povertà di spirito. Se non c’è questa radice dentro di noi, rischiamo di sbagliare i nostri interventi educativi. D’altra parte, che la Chiesa oggi sia chiamata a ritrovare il senso autentico della povertà, lo dice sempre anche papa Francesco che è un Papa davvero cristiano perché ama la povertà evangelica.
Oltre a povertà, quale altra parola abbiamo ‘sporcato’?
Certamente libertà, come ci dimostrano le manifestazioni di questi giorni dei no vax. Ma anche solidarietà. Non dobbiamo fare del bene perché è un dovere del cristiano, ma solo perché ce lo sentiamo dentro. Se non lo facciamo il bene non siamo neppure autentici e genuini con noi stessi.
Torniamo ai genitori. Quali consigli ti senti di dare alla madri e ai padri dei nostri giorni?
Mi limito a due punti. Il primo è il dovere di testimoniare. Testimoniare vuol dire non fermarsi alla superficie, ricordarsi che esiste una vita interiore. Certo, anche questa è una parola che va chiarita, troppo spesso usiamo parole come chiacchiere. Le parole che contano sono frutto della verità. Testimoniare vuol dire rendere concreto quello che si dice, vuol dire incarnare le parole dopo averle dette, cioè essere esempi importanti per i nostri ragazzi. Il secondo punto è aiutare gli adolescenti a volersi bene, oggi non si vogliono bene e non perché siano cattivi. Non si vogliono bene perché sono tristi, è scomparso il sorriso.
Come si spiega questa tristezza, qualcuno dice che, dopo la pandemia, sia aumentata l’incertezza nel futuro?
È vero ma non basta a spiegare questa situazione di disorientamento generale. L’incertezza nel futuro c’è sempre stata, ma una cosa è vedere il futuro con speranza oppure vederlo con disperazione. Noi adulti dobbiamo tornare a dire ai giovani che comunque qualcosa di bene verrà, che vale la pena scommettere sul futuro, che la speranza è tutto. Certo, per dirlo, ci vorrebbero degli adulti che però, non essendo cresciuti, non sono in grado di dirlo.
E quindi?
Nelle conclusioni del mio ultimo libro dico: ‘Signore insegnaci a parlare di meno e a sorridere di più anche nei deserti delle nostre vite balorde’. E quindi torniamo a testimoniare ai nostri adolescenti la bellezza del sorriso che è segno di speranza..
In Avvenire, noi in famiglia, del 21.11.2021

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