Don Oreste Benzi: “Sono solo uno scarabocchio di Dio!”

Don Oreste Benzi: “Sono solo uno scarabocchio di Dio!”

Pubblicato da Stefano, Con 0 Commenti, Categoria: Articoli,

LA VOCAZIONE

«Mi paragono a volte ad un bambino fra le braccia della mamma. Cosa percepisce un bambino della mamma? Poco, ma è certo che la mamma lo ama.

La grande scoperta della nostra vita è la scoperta di Dio che ci ama.

Poi si fruga tra le pieghe della storia per capire come Egli ci ha amati: io vi posso raccontare come è capitato a me.

Sono nato 82 anni fa. La mia casa era lontana dalla scuola circa due chilometri e si andava a piedi. Frequentavo la prima elementare quando, durante l’inverno, mi sono ammalato di morbillo. Ero cagionevole di salute, così sono stato a casa tutto l’inverno… sono stato bocciato e ho dovuto ripetere la prima.

Ma io devo benedire Dio, e sapete perché? Se io fossi stato promosso, sarei andato con un’altra maestra, la Tosi, invece sono rimasto con la maestra Olga Baldani, che un giorno ha parlato così bene dei sacerdoti, dei pionieri e degli scienziati!

Cosa si capisce a sette anni? Eppure sono rimasto come rapito, sono andato a casa e alla mia mamma ho detto: ‘Mamma, io mi faccio prete’ e da quell’età non ho più cambiato.

Quando ci penso dico: ‘Guarda Dio come è stato grande!’. Ricordo che mi vergognavo per essere ripetente, eppure è stato un dono bellissimo che il Signore mi ha fatto.

Poi ci sono stati tanti altri incontri dovuti a quella bocciatura, per i quali benedico Dio.

Quello che noi dobbiamo riuscire a leggere è il fatto che in ogni avvenimento, che lo percepiamo come positivo o negativo, l’amore di Dio è sempre vicino a noi, sempre, e anche l’amore di Maria non ci lascia mai.

Questo ci dà una pace enorme, perché tu fai il bene e Lui scrive la storia che tu ancora non puoi leggere. Forse alla fine della vita arriverai a capire qualcosa… ma non è importante arrivare a capire, importante è arrivare a essere certi che Egli ci ama».

(inedito, 24 febbraio 2007).

 

LA STORIA

Romagnolo, settimo di nove figli, a 12 anni entrò in seminario e i suoi genitori, per permettergli gli studi, chiesero l’elemosina. Un’esperienza che egli visse non come avvilente, ma anzi come prova di dignità e amore: «Questo fatto mi ha aiutato molto in seguito…».

Dalla madre Rosa ereditò la forza della preghiera, dal padre Achille l’amore per i ‘piccoli’, gli emarginati, gli ‘scartati’. Il primo di questi era proprio suo padre: una sera tornò a casa e raccontò alla famiglia di aver aiutato un proprietario terriero a disincagliare la sua auto. Il ricco gli aveva dato una mancia di due lire e soprattutto po u’ma stret la mena!, diceva incredulo, «poi mi ha stretto la mano».

A suo figlio invece si strinse il cuore: «Mio padre apparteneva a quella categoria di persone che reputano di non valere nulla, che chiede quasi scusa di esistere. Quando io incontro il povero, l’ultimo, il disperato, quelli che sono alla stazione, sul marciapiede, in me si rifà presente quella immagine di mio papà».

Non dormiva mai più di tre ore per notte, per non perderne nemmeno uno. È stato il prete delle vere rivoluzioni sociali, tutte condotte da dentro la Chiesa, armato solo di tonaca e Vangelo.

Il dorso don Oreste non lo ha mai piegato davanti ai potenti, soltanto per chinarsi a raccogliere il povero, il barbone, la prostituta, il drogato. Contro tutte le guerre, ha combattuto accanto ai primi obiettori di coscienza per la nonviolenza e con uguale spirito al fianco di migliaia di bambini destinati all’aborto: La t’è nde bin, «ti è andata bene!» diceva quando ne incontrava uno in braccio alla madre. «L’uomo non è il suo errore», ha rivelato ai carcerati, convincendoli che ricominciare si può sempre, e «nessuna donna nasce prostituta», ha detto liberandone settemila. E poi anziani soli, malati, zingari, stranieri, sbandati, drogati, disperati…

Le intuizioni più geniali furono la famiglia come terapia contro ogni sconfitta, e il metodo della condivisione diretta: «Date una famiglia a chi non ce l’ha» e «Non c’è chi salva o chi è salvato, ma ci si salva insieme», disse ai suoi, e così centinaia di giovani sposi accanto ai propri figli oggi accolgono bambini disabili, anziani abbandonati, quelli che nessuno vuole.

 

Il senso è che non basta mandare aiuti, occorre «mettere la propria spalla sotto la croce altrui» e camminare insieme, vivere con i ‘piccoli’ 24 ore al giorno, portarli a casa, renderli famiglia. Sembra impossibile, è vero, ma loro, a migliaia, lo rendono possibile tutti i giorni.

La notte del 25 settembre del 2007 don Oreste uscì dalla sua casa e bussò alla Capanna di Betlemme, la sua struttura per senzatetto: «Eccomi, sono un barbone».

Vivrà con loro fino alla notte tra i Santi e i Morti, quando all’improvviso, dopo una festosa cena al ristorante dove misteriosamente aveva voluto invitare gli amici più cari (fatto mai avvenuto prima), chiuse gli occhi. «Domani siamo in marcia», rivelò all’amico Oscar Baffoni durante quella cena, con un mezzo sorriso, una battuta che avrebbe compreso ore dopo.

Erano in diecimila al suo funerale, i suoi ‘piccoli’, gli ex disperati, tutti con la luce negli occhi e un contagio di gioia nel cuore.

«Don Oreste non è ancora stato proclamato santo – ha detto avviando la causa il vescovo di Rimini, Francesco Lambiasi – ma è vissuto da santo pur senza mai ritenersi tale.

Al cardinale Caffarra che gli aveva espresso il mio stesso pensiero, don Oreste rispose: no, eminenza, io sono solo uno scarabocchio di Dio».

Della ‘Papa Giovanni XXIII’ diceva «è come il calabrone: un insetto così tozzo e con le ali così piccole che per gli scienziati non avrebbe mai potuto volare. Eppure vola».

E così realizza l’irrealizzabile.

Lucia Bellaspiga in avvenire  del 29.10.2017