L’ammalato “impossibile”

L’ammalato “impossibile”

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Sono alla mia prima esperienza come infermiera. Introducendomi nel reparto, i colleghi avevano ritenuto opportuno darmi qualche istruzione: “Quell’uomo è impossibile”.
Era un malato grave che si nutriva con sonda. Non poteva parlare e non si riusciva a comunicare con lui. Da subito ho avvertito l’urgenza di amarlo fino a sentire in me la sua malattia, i suoi limiti fisici.
Ce n’è voluto di tempo, ma da quel primo giorno in cui, vedendomi entrare, aveva girato la faccia contro la parete, le cose sono molto cambiate. Adesso, a cenni, mi chiama, mi fa capire che mi ringrazia, è più tranquillo. Collabora perfino nelle sedute di fisioterapia. (G. – Portogallo)

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